10 Dicembre 2021

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra a fianco degli Alleati (Francia, Regno Unito, Impero russo, Impero giapponese e in un secondo momento anche gli Stati Uniti d’America) contro il blocco degli stati europei centrali (Impero tedesco, Impero austro-ungarico e Impero ottomano).

Inizialmente l’Italia si dichiarò neutrale, ma con la rottura degli equilibri politici al governo e l’emergere di mire espansionistiche, dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915. Si aprì un conflitto della durata di tre anni, combattuto soprattutto sul fronte che dalle Dolomiti si estendeva fino al Carso e al fiume Isonzo. Le truppe del Regio Esercito combatterono strenuamente in quella che viene definita una “guerra di trincea”: tutt’oggi è possibile camminare lungo i percorsi scavati dai soldati nel terreno e nella roccia e che furono per loro una salvezza e una maledizione.

Il ruolo fondamentale del rancio

In un contesto simile, un sistema di rifornimento alimentare capillare ed efficiente era di fondamentale importanza. Ogni uomo doveva essere nel pieno delle sue forze per combattere e spostarsi sul territorio: il giusto apporto calorico doveva essere garantito a ogni soldato durante tutto l’arco temporale del conflitto. Questo significava gestire una rete logistica non indifferente, che si diramava dagli impianti di produzione e confezionamento, alla conservazione in luoghi dedicati e al trasporto, fino alla cottura e alla distribuzione del rancio dall’ultima alla prima linea.

Il problema relativo all’alimentazione delle truppe non era una novità: già nel 1810, Napoleone Bonaparte aveva affidato alla “Casa di Appert” la produzione di cibo a lunga conservazione (ottenuto con la chiusura ermetica dei contenitori) per i suoi soldati. Successivamente, l’invenzione di Appert venne perfezionata e gli alimenti cominciarono a essere conservati all’interno di scatole di latta: l’Italia sperimentò con successo il nuovo metodo di conservazione durante la guerra di Crimea (1854-1855).

Il cibo in scatola giocò un ruolo cruciale nel vettovagliamento del Regio Esercito anche durante la Prima Guerra Mondiale. Ancora oggi, nei luoghi dei principali scontri, emergono dal terreno i resti di quel periodo turbolento: oltre a residuati bellici di vario genere, tornano alla luce anche oggetti di vita quotidiana come gavette, posate, bottiglie e scatolette che un tempo contenevano alimenti.

Cosa mangiavano le truppe?

Agli albori della Prima Guerra Mondiale, quindi, lo stato italiano sapeva già come gestire l’approvvigionamento delle truppe. All’entrata nel conflitto, la razione di viveri ordinaria dei soldati raggiungeva le 4082 calorie e comprendeva:

  • 750 g di pane o gallette
  • 375 g di carne fresca o conservata
  • 100 g di pasta o riso
  • 350 g di patate
  • 15 g di caffè tostato
  • 20 g di zucchero
  • un quarto di vino
  • vari condimenti
  • cioccolata

Nel 1916 la razione venne ridotta e la carne fresca venne via via sostituita con quella conservata o del pesce in scatola. Le cause principali furono la difficoltà di approvvigionamento e la qualità scadente delle vie di comunicazione. Basti pensare che, all’inizio della guerra, le razioni venivano trasportate all’interno di marmitte termiche e arrivavano a destinazione in condizioni pessime.

Nel 1917, a seguito della disfatta di Caporetto, l’apporto calorico diminuì ancora (si arrivò a 3067 kcal) e alcuni alimenti vennero sostituiti con fondi di caffè, ghiande, cicoria… mentre venne aumentata la quantità di alcolici, per infondere coraggio ai soldati prima della battaglia.

Gallette e cibo in scatola

Il pane era uno degli alimenti che deperiva più velocemente, diventando secco in poco tempo e raggiungendo le truppe quando ormai era quasi immangiabile. Le gallette erano una valida alternativa al pane ed erano a lunga conservazione.

A differenza di una pagnotta, le gallette assomigliavano a un grosso biscotto non lievitato. L’obiettivo era quello di contenere i nutrienti del pane in un volume minore e poter essere trasportate anche per lunghi tragitti senza rompersi. La ricetta delle gallette, in realtà, era conosciuta già ai romani (che nutrivano le truppe con il bucellatum): erano fatte da un semplice impasto di acqua e farina, talvolta con l’aggiunta di sale.

Realizzate a mano o a macchina, di forma quadrata o tonda, le gallette pesavano tra i 100 e i 200 grammi e venivano conservate in speciali contenitori, avvolte in singolarmente in carta per proteggerle dall’umidità e dalla polvere. Erano talmente resistenti, che alcune gallette risalenti ai primi decenni del ‘900 sono ancora intatte: il Museo Storico Giuseppe Beccari di Voghera, ad esempio, ne conserva alcuni esemplari.

Per quanto riguarda il cibo in scatola, invece, si rivelò spesso l’ultima risorsa disponibile (non a caso, la sua consumazione era possibile solo previa l’autorizzazione degli ufficiali!). Il contenitore a chiusura ermetica in latta isolava il contenuto dall’ambiente esterno, proteggendolo non solo dal rapido deterioramento, ma anche dallo sporco e da possibili contaminazioni con gas letali. Non è un caso che, proprio durante la Grande Guerra, l’industria conserviera italiana abbia conosciuto una forte crescita, permettendo lo sviluppo di alcuni marchi tutt’oggi leader nel settore (es. Cirio, Bertolli…).

Le scatolette erano spesso decorate con soggetti patriottici o avevano nomi che ricordavano vittorie militari passate (es. “Antipasto Tripoli”, “Alici alla Libia”…), con lo scopo di nutrire anche la mente, oltre che il corpo, dei soldati al fronte.

Il rifornimenti alimentari, insomma, sono stati uno dei temi che ha influito le sorti della Prima Guerra Mondiale. Cosa significasse mangiare in condizioni tanto disumane, in mezzo al fango, con il perenne odore di polvere da sparo, la paura e l’adrenalina… non possiamo immaginarlo, ma una cosa è certa: ciò che un tempo era una semplice galletta, oggi è un ricordo tangibile di quei tristi avvenimenti.