23 Novembre 2021

Pochi forse sono a conoscenza delle circostanze che hanno portato la vettura in cui furono assassinati il Generale Dalla Chiesa e sua moglie da Palermo a Voghera.
Occorre compiere un passo indietro e tornare al cupo periodo della Seconda Guerra Mondiale. Una giovane infermiera volontaria, che si prodigava sulle navi ospedale, nel luglio del 1943 in Sicilia si imbatté in un soldato ferito, che aveva la mano destra gravemente compromessa dalla schegge di una granata e rischiava l’amputazione.
Nel delirio il malato implorava che gli fossero salvate le “dita canoniche”…
La “Sorella” intuì che il ragazzo voleva diventare sacerdote (si riferiva infatti alle dita che componevano il gesto della benedizione dei fedeli). La crocerossina salvò il malato, poi lo perse di vista per trent’anni e forse se ne scordò.
Non smarrì invece la memoria il giovane che, finita la guerra, divenne sacerdote barnabita.
Inviato a Voghera in qualità di Direttore dell’Orfanotrofio cittadino, non smise mai di cercare la misericordiosa infermiera che lo aveva soccorso. Grazie alle ricerche del commendator Giuseppe Beccari, direttore del Civico Museo e della moglie, “sorella” Giuseppina, un giorno il sogno del sacerdote si avverò: durante una festa della Croce Rossa incontrò la sua benefattrice.
Il Barnabita era padre Natale Molteni, l’infermiera si chiamava Antonia Setti Carraro e aveva una figlia, Emanuela. La giovane restò affascinata dalla storia dei due “reduci” di guerra e si affezionò a Molteni, tanto che lo scelse come direttore spirituale e fu proprio lui a farle il fidanzato, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Dopo il matrimonio, dalla residenza di Palermo, Emanuela invitò padre Molteni a ritornare sull’isola, per rivedere i luoghi che furono teatro di combattimenti. Mancò il tempo di realizzare quel progetto, i coniugi Dalla Chiesa furono assassinati a due mesi dalle nozze.
La madre Antonia era distrutta dal dolore, ma trovò la forza di reagire, proponendosi l’obiettivo di mantenere in vita la memoria della figlia e del genero e di diffondere gli ideali per cui essi avevano sacrificato la vita. Era di Emanuela l’autovettura orrendamente crivellata di colpi e costituiva da sé una testimonianza eloquente di barbarie.
Il commendator Beccari, tramite padre Molteni, la richiese a “Sorella” Antonia, che acconsentì a donarla al Museo.
Sono passati molti anni dal massacri di Palermo, ma l’emozione dei visitatori davanti a questo “cimelio” è sempre forte.
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